Torno a scrivere qui sul mio blog dopo qualche anno di pausa. Non mi è mai piaciuto forzare le cose e per questo mi sono preso una pausa fino a quando non mi è venuta l’ispirazione. In un tempo in cui siamo sommersi dalle informazioni il mio modo di essere rivoluzionario è stato lasciare che le cose avvengano naturalmente, in tutti i campi compresa la gestione del mio blog.
La riflessione di oggi parte dal concetto di prendersi cura dell’altro, qualcosa di assolutamente naturale nell’essere umano dotato di presenza.
Nella vita si ha sempre una certa difficoltà nel confrontarsi col dolore, la sofferenza e la malattia degli altri. Ci si sente spesso inermi e non si sa cosa fare. Sentiamo dentro di noi un disagio, come un senso di imbarazzo. A volte è profondamente spiazzante soprattutto quando questa sofferenza è a carico di qualcuno per cui proviamo sentimenti di affetto.
Dobbiamo sempre considerare le sensazioni che proviamo rispetto alla realtà che ci circonda come una proiezione della nostra interiorità. Ci sono situazioni oggettive al di fuori di noi, se poi esiste davvero un fuori, e ci sono reazioni soggettive che si manifestano all’interno del nostro essere. A volte non è semplice far convivere questi due aspetti.
La nostra difficoltà a confrontarci con la sofferenza dell’altro per lo più è un riflesso della nostra difficoltà a confrontarci con il nostro dolore. Quando qualcuno è malato può emergere un senso di profonda angoscia dentro di noi, quasi un immedesimazione con la sua sofferenza che ci porta il desiderio di dare in qualche modo sollievo. Questo stato può essere definito empatia, una qualità dell’essere umano, nel senso che se siamo umani proviamo empatia, ci mettiamo nei panni dell’altro.
All’interno del fenomeno di prendersi cura l’empatia è però solo il primo step, quello che ci permette di percepire una condizione, uno stato dell’altro. Ovviamente se vogliamo in qualche modo essere di aiuto l’empatia non basta. Prendersi cura di qualcuno richiede presenza di spirito e centratura. Entrare in uno stato di agitazione di fronte alla sofferenza (risonanza) non è di aiuto all’altro ne tanto meno a noi stessi. Comporta una perdita di lucidità allargando a macchia d’olio il problema.
Come mai succede questo?
Questo avviene nel momento in cui per primi non abbiamo fatto pace con certi aspetti di noi, lì dentro si trovano paure profonde, aspettative, intenzioni, esigenze, tutta una serie di proiezioni che ci portano fuori dal senso del momento e conseguentemente dalla possibilità di dare un sostegno all’altro.
Detto questo non significa che devo essere un illuminato libero da ogni attaccamento per essere di aiuto. Di fronte ad ogni condizione l’unica necessità, l’unico requisito è uno stato di Amore. Quando l’amore è puro, quindi privo delle proiezioni su citate, ogni gesto sarà accompagnato da un’aura di magia.
Così la mamma guarisce il bambino con un bacio. Un amico si sente sollevato da un dolore avendoci a fianco in silenzio. Così un cucchiaio di miele o un tè che ci vengono offerti mentre siamo a letto raffreddati possono contenere un profondo potere taumaturgico. Perché? Perché non viene fatto perché è dovuto, non viene fatto per far vedere che siamo bravi, non viene fatto con la pretesa di somministrare un farmaco salvifico. Viene fatto come gesto d’amore. Anche in punto di morte, quando nella frustrazione o rassegnazione dei cosiddetti esperti, sappiamo che non c’è più niente da fare, in quel momento disperato c’è ancora spazio per qualcosa, qualcosa che non si acquisisce con una laurea. C’è ancora spazio per un gesto d’amore che potrà nobilitare la fine di ogni essere umano.
Questo è uno dei grandi drammi di quest’epoca, aver dimenticato che mai l’uomo potrà inventare un farmaco che possa guarire quella parte intima di noi, quella che ha solo bisogno di un gesto d’amore.
Auguro a tutti di ricevere sempre, nel momento del bisogno, un banale gesto d’amore.
No Comments